In questa puntata della nostra rubrica “La voce dal basso”, abbiamo incontrato Luca, 41 anni, infermiere da oltre quindici. Lavora in un importante ospedale pubblico del Centro Italia, dove ogni giorno affronta le sfide di una professione che continua a essere centrale per la tenuta del Servizio sanitario nazionale, ma che troppo spesso viene data per scontata dalla politica.
Con lui abbiamo parlato del percorso universitario che forma gli infermieri, delle difficoltà quotidiane nei reparti, delle condizioni del sistema pubblico, delle proteste recenti e delle prospettive future per chi sceglie di entrare oggi in questa professione. Una testimonianza che aiuta a capire meglio cosa significa davvero “fare l’infermiere” nel 2025.
Perché hai scelto di diventare infermiere?
Non è stata una scelta “da vocazione”, come si dice spesso. È arrivata per gradi, dopo aver scartato altre ipotesi e aver iniziato a chiedermi che tipo di lavoro volessi fare davvero.
Mi interessava qualcosa che avesse un impatto concreto, che non fosse solo teorico. Poi, vivendo alcune esperienze personali in ambito sanitario, ho cominciato a guardare meglio cosa facevano davvero gli infermieri: non solo eseguivano procedure, ma gestivano relazioni, prendevano decisioni, tenevano insieme pezzi di situazioni spesso molto complesse.
Questo mix di competenza tecnica e presenza umana mi ha colpito. Così ho scelto Infermieristica. Non con romanticismo, ma con convinzione.
Come ricordi i tuoi anni all’università? Cosa ti ha colpito di più durante il percorso di studi?
Sono stati anni impegnativi. Tra lezioni, laboratori, esami e tirocini non c’era molto tempo per tirare il fiato. Ma è proprio questa alternanza tra teoria e pratica che ti cambia: non studi solo per passare un esame, ma perché sai che certe cose ti serviranno davvero, magari già la settimana dopo in corsia.
Quello che mi ha colpito di più è stato il passaggio dai libri al reparto. Devi imparare a osservare, ad ascoltare, a fare domande, mentre allo stesso tempo inizi a scoprire un ruolo che non è fatto solo di gesti tecnici, ma anche di relazioni e responsabilità.
Sicuramente ci sono stati momenti faticosi, anche di frustrazione. Ma mi piace perlopiù ricordare gli incontri, gli scambi, le piccole soddisfazioni che mi hanno fatto sentire sulla strada giusta.
Com’è la tua giornata tipo come infermiere e quali sono le difficoltà più grandi che incontri nel tuo lavoro quotidiano?
La giornata inizia presto. Il primo passaggio è sempre la consegna: capire cosa è successo nel turno precedente e cosa ci aspetta. Poi si parte: terapie, medicazioni, assistenza diretta, aggiornamento delle schede, telefonate, imprevisti. C’è sempre qualcosa da fare, e spesso non nel tempo che servirebbe.
La difficoltà principale è proprio questa: i tempi sono stretti, il personale è spesso insufficiente e ti ritrovi a dover correre, a dover scegliere cosa viene prima e cosa può aspettare. Ma le persone non sono attività da spuntare, ognuno ha una storia e un bisogno diverso. Un altro aspetto difficile è l’impatto emotivo. Ci sono giorni in cui torni a casa e ti porti dietro quello che hai visto, magari anche ciò che non sei riuscito a fare come avresti voluto.
Come vedi oggi il sistema sanitario pubblico italiano dal tuo punto di vista?
È un sistema che regge, ma a fatica. Chi ci lavora ogni giorno lo sa: si va avanti spesso più per senso di responsabilità che per condizioni favorevoli. Mancano persone, risorse, riconoscimenti, e spesso chi rimane si trova a coprire i vuoti lasciati da chi ha deciso di andarsene o cambiare strada. La sensazione è che da troppo tempo si chieda tanto a chi lavora nella sanità, senza dare molto in cambio. Non parlo solo di stipendio, ma anche di ascolto, di spazio per migliorare, di possibilità di crescita professionale.
Eppure, nonostante tutto, il servizio sanitario nazionale resta un punto di riferimento per tanti. È proprio per questo che fa rabbia vedere come viene trattato, perché sappiamo quanto potrebbe funzionare meglio se solo si investisse davvero nelle persone che ogni giorno lo tengono in piedi.
Cosa pensi delle recenti proteste, scioperi e trattative sul contratto?
Penso che fossero inevitabili e, anzi, forse sono arrivate anche troppo tardi. Da anni si accumula frustrazione: promesse mai mantenute, contratti rinnovati in ritardo, aumenti che non tengono il passo con il costo della vita. Lo sciopero, soprattutto in sanità, non è mai una scelta semplice: chi lavora in ospedale sa che fermarsi significa lasciare un vuoto, mettere in difficoltà colleghi e pazienti. Ma quando ti accorgi che nessuno ti ascolta, che le tue condizioni non migliorano, arriva il momento in cui scegli di dire “basta”.
Le trattative sul contratto hanno deluso molti. Gli aumenti proposti – 172 euro lordi medi, spalmati su tre anni – non bastano a recuperare ciò che abbiamo perso con l’inflazione, né a trattenere chi sta pensando di mollare.
Ci sono anche aspetti non economici che sono stati messi sul tavolo: il supporto psicologico per chi subisce aggressioni, la riduzione dei turni più pesanti per chi ha più anni di servizio, la settimana corta. Tutte misure importanti, ma spesso siamo abituati a leggere tante buone intenzioni e vedere pochi risultati.
Nel frattempo, i problemi restano: carenze di organico, turni massacranti, poco margine di recupero tra un turno e l’altro. Le proteste, gli scioperi, le lettere aperte alla politica non nascono da un capriccio, ma da una stanchezza che è diventata sistemica.
Hai mai pensato di lasciare il settore pubblico o di andare all’estero? Perché?
Sì, l’idea c’è stata e ogni tanto torna. Quando lavori con ritmi serrati, pochi riconoscimenti e crescenti responsabilità, inizi a chiederti se ha davvero senso restare in un sistema che sembra darti sempre meno. E quando confronti la tua realtà con quella di chi è andato altrove, la tentazione si fa sempre più definita.
Un mio amico ha fatto proprio questa scelta: ha lasciato l’Italia e ora lavora in Svizzera, a Lugano. Prima come frontaliere, poi si è trasferito definitivamente con la famiglia. Mi ha raccontato che guadagna quasi tre volte rispetto a prima, ma non è solo una questione economica. Dice che lì i turni sono più equilibrati, il rispetto delle pause è reale, e ogni anno lo stipendio viene aggiornato in automatico, senza dover fare scioperi o aspettare invano rinnovi contrattuali.
Certo, anche lì ci sono difficoltà: il costo della vita è alto, l’assicurazione sanitaria è a carico del cittadino, e non c’è quel senso di familiarità che si ha in Italia. Però lui non ha rimpianti: si sente rispettato, e questo fa la differenza.
Io ho scelto di restare, almeno per ora, ma capisco bene chi decide di andare. E se le cose non cambiano, temo che in futuro in tanti faranno quella stessa scelta.
Cosa diresti a un giovane che sta pensando di iscriversi a Infermieristica? Hai un consiglio che avresti voluto ricevere tu prima di iniziare?
Gli direi di pensarci bene, ma non per scoraggiarlo bensì per prepararlo. Infermieristica non è un percorso facile, né all’università né dopo: richiede impegno, pazienza, e la capacità di stare dentro situazioni anche molto dure senza mai perdere di vista il motivo per cui si è scelto di esserci.
Ma è anche una strada che ti restituisce molto, se sai osservare e se ti metti in discussione, così da essere disposto a crescere. Non è un mestiere ripetitivo, ogni giornata è diversa e ogni persona che incontri ti insegna qualcosa.
Il consiglio che avrei voluto ricevere? Di non cercare subito la perfezione, né nei gesti né nelle risposte. All’inizio ti senti spesso inadeguato, ma è normale perché si impara nel tempo, anche dagli errori. E soprattutto: non fare il percorso da solo. Condividi, confrontati, chiedi aiuto perché non c’è bisogno di dimostrare tutto subito: ciò che conta è costruire, un passo alla volta.