Fondatore della Roma Calcio Amputati, atleta, autore, formatore e padre, Arturo Mariani è una di quelle persone capaci di trasformare un limite in un punto di partenza. La sua storia è un viaggio fatto di visione, determinazione e amore per il calcio, uno sport che per lui non è solo una passione, ma uno strumento di inclusione e rinascita.
In questa intervista ripercorriamo insieme a lui le origini del progetto Roma Calcio Amputati, il primo club italiano dedicato a questo movimento, nato nel 2021. Dalla folgorazione in un servizio televisivo al lavoro quotidiano con l’Academy Proabile, Mariani ci racconta sogni, ostacoli e speranze. Ma soprattutto, ci regala un messaggio potente e universale: “non importa cosa ti manca, conta cosa puoi fare con quello che hai”.
Arturo, partiamo dall’inizio: com’è nata l’idea della Roma Calcio Amputati? Qual è stato il momento in cui hai deciso che dovevi fondare questa squadra?
Allora, l’idea della Roma Calcio Amputati nasce da una volontà di far realizzare quel sogno a tanti altri ragazzi, a tante altre persone. E così è stato per due anni e mezzo, e così continua a essere tramite l’Academy Proabile. Girando tanto per il mondo ho sentito un forte senso di gratitudine per quel sogno che sono riuscito a realizzare, e quindi da quel momento è nata anche l’esigenza di poterlo regalare a tante altre persone, perché ce n’è bisogno.
Mi ricordo il momento in cui ho deciso: eravamo a tavola con mio padre, parlavamo e vedevamo lo sviluppo anche del calcio amputati e abbiamo detto: “Perché non realizziamo anche questo obiettivo, quello di creare la Roma che manca?”, ovviamente con i nostri colori del cuore.
Hai raccontato che vedere un torneo di calcio amputati in Africa ti ha cambiato la vita. Cosa hai provato in quel momento?
Nello specifico, in televisione, in un servizio che parlava di squadre africane, ma anche del Sud America, che stavano facendo un torneo. Era la prima volta che vedevo il calcio amputati, il calcio con ragazzi con bastone e con le stampelle, e quindi rimasi colpito.
Era il periodo in cui avevo cominciato a togliere la protesi per la prima volta e continuavo comunque a utilizzarla. È stato veramente un momento importante: ho trovato il senso di dire “ce la posso fare anche io”.
Spesso dici che la vera domanda non è “cosa mi manca”, ma “cosa posso fare con quello che ho”. Quanto è stato importante questo cambio di prospettiva nella tua vita personale e sportiva?
Cambiare prospettiva, guardare a quello che posso fare con quello che ho, con la gamba, con la Proabilità, è fondamentale. Lavoro nel mio personale girando per l’Italia, per il mondo, facendo eventi, incontrando persone, cercando di trasmettere appunto quella visione di possibilità.
Perché se tu cambi le parole, modifichi il pensiero, si modificano le emozioni e riesci a modificare proprio la prospettiva della realtà. E la realtà stessa è molto collegata. Nella mia vita personale e in quella sportiva ha fatto totalmente la differenza.
Raccontaci dei primi passi nel movimento del calcio amputati in Italia. Come hai conosciuto Francesco Messori e cosa ti ha colpito di più di quella esperienza iniziale?
Il calcio amputati nasce più o meno nel 2012, anno in cui è stato ufficializzato con il CSI, all’epoca grazie a Francesco Messori, che aveva creato un gruppo chiamato “Calcio d’Italia”, dove stava radunando ragazzi con amputazioni o malformazioni, o nati con un arto solo, o comunque con condizioni particolari, per creare la prima Nazionale. È stato visionario.
Francesco l’ho conosciuto facendo una ricerca dopo aver visto quel servizio in televisione: ho cercato su internet, su Facebook, se esistesse qualcosa in Italia. Ho trovato questo gruppo “Calcio d’Italia” e da lì ho conosciuto Francesco. Abbiamo fatto il primo ritiro: eravamo in quattro all’inizio. Loro ne avevano già fatti altri prima, mi sembra che quello a cui ho partecipato fosse il secondo o il terzo ritiro in assoluto. Eravamo circa quattro o cinque ed è stato indimenticabile. A Lenola.
La Roma Calcio Amputati è nata nel 2021. Quali sono state le maggiori difficoltà nel dare vita a questo progetto?
Nel 2021 le difficoltà sono state in realtà visibili nel tempo, perché all’inizio abbiamo ricevuto tanto entusiasmo da parte dei media, della stampa, di personaggi, ex calciatori. Insomma, ci sono state vicine tante persone. Poi, nel tempo, quando cala l’entusiasmo e bisogna mettersi lì e sporcarsi le mani, insomma, ci siamo ritrovati un po’ da soli.
Che ruolo ha avuto tuo padre, oggi presidente della squadra, nel tuo percorso umano e sportivo?
Mio padre ha avuto un ruolo fondamentale, e devo dire che è stato il mio braccio, ma anche la mia gamba in questo progetto. Lo è tutt’oggi con l’Academy Proabile, perché è lui che gestisce, che coordina.
Ovviamente, prima di decidere, prima di compiere qualsiasi azione, con grande umiltà e con grande rispetto dei ruoli – anche perché fa parte a livello dirigenziale e di tutto – si confronta sempre con me, mi chiede il consenso. Però è fantastico questo, perché ha capacità da leader che mi ha trasmesso e che oggi mi hanno aiutato ad essere quello che sono. E poi è un sostegno presente, e condividere questa realtà con lui è il valore aggiunto per quanto mi riguarda. È un po’ quella motivazione, il valore nei momenti. Vivere i momenti con lui.
Nella vostra squadra ci sono anche figure importanti del mondo sportivo come Simone Perrotta. Cosa significa per voi avere al fianco questi nomi?
Simone Perrotta è vicepresidente, e significa tanto perché è un po’ quella credibilità e quel boost di visibilità che è fondamentale, è stato fondamentale.
Tutt’oggi la Roma Calcio Amputati è conosciuta nonostante siamo fermi, nonostante poi manchi la praticità degli interventi. Però è stato fondamentale ed è fondamentale, perché ti fa conoscere. Questa è una fase in cui bisogna far conoscere il calcio amputati in Italia, che ancora non è abbastanza conosciuto.
Il campionato italiano FISPES è ancora agli inizi. Come vedi lo sviluppo futuro di questo sport in Italia?
Agli inizi, più o meno, perché ormai sono passati tanti anni da quando esiste il calcio amputati.
Quindi è ora di fare lo switch importante che tante altre nazioni hanno già fatto, e speriamo al più presto diventi uno sport riconosciuto dalla FIGC, e soprattutto supportato anche dalle grandi società.
Perché questo deve avvenire.
Quali sono le regole più curiose del calcio amputati che le persone non si aspettano?
Le regole più curiose? Sicuramente le stampelle non possono toccare la palla, altrimenti sono considerate come un prolungamento del braccio, quindi è tocco di mano se la toccano. Non esiste il fuorigioco. Il portiere non deve avere un braccio, al contrario di una gamba, quindi questa è molto particolare. Le rimesse laterali si battono ovviamente con i piedi. I tempi sono da 25 e 25.
È un po’ a parte rispetto al calcio giocato, però è decisamente divertente.
Ci hai raccontato del giovane ragazzo siriano che oggi gioca con voi. Cosa significa per te vedere storie come la sua trasformarsi grazie al calcio?
È straordinario poter dare la possibilità a persone che magari non ne hanno, o che si sono trovate di fronte a un grande trauma nella vita, di riuscire a essere: uno, accolte; due, ascoltate; e tre, avere la possibilità di giocare, di mettersi in gioco, di fare attività fisica.
Qualcosa che dovrebbe avvenire in tutte le sedi, in tutte le società sportive. Quindi noi oggi lo facciamo e diventiamo l’eccezione che lo fa, però questo serve solamente per cambiare quella cultura e permettere veramente a tutti di poterlo fare ovunque, in qualsiasi contesto.
Quello che un po’ è venuto a mancare anche a me quando ero più piccolo, ecco.
Hai detto che il vostro obiettivo è diventare un polo di inclusione. Come pensate di coinvolgere più ragazzi e far conoscere questo sport?
Sicuramente questo avverrà nel momento in cui ci sarà anche un supporto maggiore da parte sia delle società di Serie A, di grande livello, ma anche quando inizieremo a parlarne di più nei media, nei social media, e quando anche il linguaggio sarà in qualche modo, tra virgolette, normalizzato.
In quel momento lì, con la giusta visibilità, allora potrà davvero diventare un polo di inclusione e potrà essere importante.
Ad oggi, purtroppo, bisogna dirlo e ribadirlo: noi siamo un po’ inclusione. Anche con l’Academy Proabile abbiamo tantissimi ragazzi, ma in confronto a quanti ce ne sono, devo essere sempre realistico con me stesso e dire che siamo all’inizio.
C’è da fare tanto. Insieme, però.
Hai parlato anche della mancanza di fondi. Cosa servirebbe davvero per fare un salto di qualità e crescere come movimento sportivo?
Sì, mi collego quindi alla domanda a seguire della mancanza dei fondi. Purtroppo oggi, quello che non porta un ritorno pratico, materiale, economico, viene spesso accantonato e viene percepito come mera beneficenza. E questo non va bene.
Qui si parla di supportare progetti che possono permettere a tantissime persone di ritornare a vivere, di fare sport, di vivere quelle esigenze primarie che permettono alla persona di portare avanti la vita che merita. E ancor di più, chi ha vissuto delle difficoltà oggettive meriterebbe questo. Serve un cambiamento culturale.
Ripeto, è anche il motivo per cui oggi ho intrapreso la strada come speaker motivazionale, come formatore, come testimonial. Perché oltre quelle disabilità, purtroppo chiamate così, c’è qualcosa che va scoperto, che va dato modo di essere vissuto.
Però c’è bisogno di supporto. C’è bisogno di visibilità, e di una visibilità che diventa normalizzante, se vogliamo, in senso positivo.
Oltre ad essere atleta e fondatore, sei diventato anche papà. Com’è stato affrontare i pregiudizi legati alla tua disabilità in questo nuovo ruolo di genitore?
Sono diventato papà ed è stata l’esperienza più bella in assoluto della mia vita. Tanti pregiudizi, tanti commenti anche ho ricevuto in questi mesi. Personalmente li affronto oggi con il sorriso, con serenità, con leggerezza, come una bolla intorno a me che è stata costruita nel tempo.
Quindi sto sereno. Allo stesso tempo rifletto sempre su tutte le altre persone che invece magari stanno vivendo la stessa situazione e che ancora devono vivere alcuni processi, e per cui alcune parole, alcuni giudizi fanno male.
E quindi dobbiamo poi evolvere come società. Quello che dico è: cercare di vedere la Proabilità, cercare di vedere quello che di bello incontriamo. Perché se spostiamo questo focus, iniziamo a cambiare anche le cose.
C’è un messaggio fortissimo che emerge dalla tua storia: “si può fare”. Cosa diresti oggi a un ragazzo che, come te anni fa, ha una disabilità e non sa da dove cominciare?
Incontro altri ragazzi, oggi, che mi chiedono come fare, mi chiedono come riuscire a vincere la disabilità, a vincere la vita in qualche modo.
Quello che dico sempre è di partire dalle parole e dalle scelte che possiamo fare: dal cambiare abitudini, dall’andare a cercare risposte tramite domande utili, domande specifiche. Questo è quello che possiamo controllare e gestire.
Però poi c’è anche una parte che dobbiamo lasciare andare, a cui dobbiamo affidarci, perché non tutto si può controllare. È nostra responsabilità modificare e gestire la prospettiva con cui viviamo, attraverso parole, scelte e quant’altro. Però è altrettanto importante affidarsi e riuscire a comprendere che non tutto è sotto il nostro controllo.
E quindi che la vita ci riserva un senso che va oltre il pensabile. E questo, secondo me, è importantissimo. E ne parlo quotidianamente.
Infine, cosa sogni per il futuro della Roma Calcio Amputati e per il movimento del calcio amputati in Italia e nel mondo?
Il sogno per il futuro della Roma Calcio Amputati è senz’altro quello di diventare una squadra a tutti gli effetti di Serie A, di trovare quei supporti che possono permettere a tante persone di lavorare per il bene di tanti altri ragazzi, per il bene di una società migliore.
E quindi sogno una Roma che un giorno potrà disputare il campionato che oggi invece non possiamo disputare, il campionato di calcio amputati, che potrà arrivare magari a vivere competizioni come la Champions League – che nel mondo è davvero prestigiosa – che possa diventare una base per tanti ragazzi, per tanti talenti, per uscire fuori e per emergere. Perché abbiamo richieste da tutto il mondo, e purtroppo ad oggi il 100% di queste richieste viene declinato perché non abbiamo possibilità, non abbiamo risorse.
E quindi sarebbe bello diventare quello che Roma è: il centro. Il centro reale e pratico. E quindi questo è quello che mi auguro, anche un po’ per il calcio amputati: che possa rientrare sempre più seriamente come realtà, che possa attivarsi dove merita, che possa richiamare l’attenzione dei media, che possa richiamare l’attenzione delle squadre di Serie A. Perché dietro non c’è solo la spettacolarità, ma c’è un messaggio che cambierebbe la vita di chiunque, di chi incontra e guarda il calcio amputati.