Referendum 2025 su lavoro e cittadinanza: date, quesiti e cosa sapere prima di votare

Una guida completa ai cinque referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno 2025 su lavoro e cittadinanza. L’articolo spiega in modo chiaro e accessibile ciascun quesito, illustrando cosa prevede oggi la legge, cosa cambierebbe in caso di vittoria del Sì e cosa accadrebbe se vincesse il No. Un approfondimento utile per orientarsi prima del voto.
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L’8 e 9 giugno 2025 le cittadine e i cittadini italiani saranno chiamati a votare su cinque quesiti referendari che puntano ad abrogare alcune norme attualmente in vigore in materia di lavoro e cittadinanza. Si tratta di referendum abrogativi, previsti dall’articolo 75 della Costituzione, promossi da sindacati e associazioni attraverso la raccolta di milioni di firme. 

I temi coinvolti toccano aspetti cruciali della vita quotidiana: dalla tutela contro i licenziamenti illegittimi all’estensione dei diritti per chi lavora nelle piccole imprese, dalla lotta al precariato al rafforzamento della sicurezza sul lavoro, fino alla possibilità di ottenere la cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza, anziché dieci.

Il voto si terrà su due giornate, domenica 8 e lunedì 9 giugno, e per la prima volta sarà esteso anche ai cosiddetti fuori sede, ovvero coloro che, per motivi di studio, lavoro o cure mediche, vivono temporaneamente in un Comune diverso da quello di residenza. 

L’esito del referendum sarà valido solo se parteciperà almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto. In caso di vittoria dei Sì, le norme oggetto dei quesiti saranno cancellate, con effetti diretti su milioni di persone. 

In questo articolo analizziamo nel dettaglio ogni quesito, spiegando cosa prevede oggi la legge, cosa cambierebbe con l’abrogazione e quali sono le motivazioni dei promotori.

Quesito 1, stop ai licenziamenti illegittimi: abrogazione del contratto a tutele crescenti

Il primo quesito referendario chiede l’abrogazione integrale del decreto legislativo 23/2015, cioè della norma che ha introdotto in Italia il cosiddetto contratto a tutele crescenti, uno dei pilastri del Jobs Act varato durante il governo Renzi. Questa tipologia contrattuale si applica ai lavoratori assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in poi, nelle aziende con più di 15 dipendenti.

Con il contratto a tutele crescenti, in caso di licenziamento illegittimo – cioè senza giusta causa o giustificato motivo – non è previsto il reintegro automatico nel posto di lavoro, ma soltanto un risarcimento economico, determinato in base all’anzianità del dipendente. Questo significa che anche quando un giudice stabilisce che un licenziamento è stato ingiusto, il lavoratore non ha diritto a tornare al proprio posto, ma riceve un’indennità calcolata in mensilità.

Il referendum propone di abrogare questa normativa, tornando a un sistema che consenta il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato, com’era previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prima della riforma del 2015. Secondo i promotori, l’attuale disciplina ha fortemente indebolito le tutele dei dipendenti, creando una condizione di maggiore ricattabilità per milioni di lavoratrici e lavoratori. L’obiettivo dell’abrogazione è quindi ripristinare una maggiore equità nei rapporti di lavoro e un effettivo diritto alla stabilità occupazionale.

  • Cosa succede se voti Sì: in caso di vittoria del Sì e raggiungimento del quorum, la norma che regola il contratto a tutele crescenti sarà abrogata. Questo comporterebbe il ritorno a un sistema che prevede la possibilità di reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti dichiarati illegittimi.
  • Cosa succede se voti No: se invece prevale il No, o comunque laddove non venga raggiunto il quorum, la norma resterà in vigore. Il contratto a tutele crescenti continuerà ad applicarsi, e in caso di licenziamento ingiustificato sarà previsto solo un indennizzo economico, senza possibilità di reintegro.

Quesito 2, più tutele per i lavoratori delle piccole imprese: abrogazione parziale delle norme sui licenziamenti

Il secondo quesito referendario propone l’abrogazione parziale di una norma che regola i licenziamenti individuali nelle imprese con meno di 16 dipendenti, ossia quelle definite “piccole”. In particolare, si vuole cancellare il limite massimo all’indennità che un giudice può riconoscere a un lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo.

Oggi, nelle piccole imprese, anche quando il giudice accerta che il licenziamento è stato ingiusto o infondato, l’indennizzo economico è rigidamente limitato a un massimo di sei mensilità. È un tetto prefissato dalla legge, che lascia poco spazio alla valutazione del caso concreto e non tiene conto, ad esempio, dell’anzianità lavorativa, del danno subito o delle condizioni personali del lavoratore o della lavoratrice.

Il referendum punta ad eliminare questo tetto, restituendo al giudice la possibilità di determinare l’indennità in base alla gravità del licenziamento e alle specifiche circostanze. Secondo i promotori, la norma vigente crea una disparità tra chi lavora nelle piccole imprese (che in Italia sono oltre il 90% del totale) e chi è impiegato in aziende più grandi, dove i margini di tutela sono più ampi. Inoltre, un limite così basso all’indennizzo rischia di favorire licenziamenti arbitrari, perché il costo per il datore di lavoro resta contenuto anche in caso di comportamento illegittimo.

  • Cosa succede se voti Sì: se vince il Sì e viene raggiunto il quorum, sarà cancellato il tetto massimo di sei mensilità per i risarcimenti in caso di licenziamento ingiustificato nelle piccole imprese. Il giudice potrà decidere liberamente l’importo del risarcimento, tenendo conto di tutte le variabili del caso.
  • Cosa succede se voti No: se prevale il No o se non viene raggiunto il quorum, la norma rimarrà in vigore. I lavoratori delle piccole imprese continueranno ad avere accesso solo a un risarcimento limitato, con un massimo di sei mensilità anche in caso di licenziamento senza giusta causa.

Quesito 3, ridurre il lavoro precario: abrogazione parziale delle norme sui contratti a termine

Il terzo quesito referendario interviene su una delle questioni più sensibili del mercato del lavoro italiano: la precarietà legata ai contratti a tempo determinato. In particolare, propone l’abrogazione parziale di alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo 81/2015, che regolano la durata massima, le proroghe e le condizioni di utilizzo dei contratti a termine.

Attualmente, la normativa consente alle aziende di assumere lavoratori con contratti a tempo determinato fino a 12 mesi senza dover indicare una motivazione oggettiva, le cosiddette “causali”. Solo oltre questa soglia temporale è richiesto giustificare il ricorso al lavoro a termine con ragioni tecniche, organizzative o produttive. La legge consente inoltre più proroghe e rinnovi, che possono prolungare la durata complessiva del contratto a termine fino a 24 mesi, anche con brevi interruzioni tra un contratto e l’altro.

Il referendum mira a cancellare queste disposizioni, in modo da ripristinare l’obbligo di motivare sin da subito il ricorso al contratto a termine, anche per periodi inferiori ai 12 mesi. L’obiettivo dichiarato dei promotori è quello di contrastare l’abuso del lavoro precario, incentivando forme contrattuali più stabili e durature. D’altronde, secondo i dati più recenti oltre 2 milioni di persone in Italia lavorano con un contratto a termine, spesso senza prospettive di stabilizzazione e con condizioni economiche e normative peggiori rispetto a chi ha un contratto a tempo indeterminato.

  • Cosa succede se voti Sì: con la vittoria del Sì e il raggiungimento del quorum, verranno abrogate le norme che permettono l’utilizzo libero dei contratti a tempo determinato nei primi 12 mesi. Sarà obbligatorio specificare da subito le motivazioni che giustificano il lavoro a termine, limitando il ricorso a questo tipo di contratto e riducendo il margine di precarietà.
  • Cosa succede se voti No: in caso di maggioranza del No o mancato raggiungimento del quorum, la normativa attuale resterà in vigore. Le aziende continueranno a poter assumere a tempo determinato per un anno senza fornire causali, e a gestire con ampia flessibilità proroghe e rinnovi dei contratti.

Quesito 4, più sicurezza sul lavoro: abrogazione parziale delle norme sugli appalti

Il quarto quesito referendario affronta il tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, con un’attenzione specifica alle situazioni che si verificano all’interno di appalti e subappalti. Il quesito propone l’abrogazione parziale dell’articolo 26, comma 4, del decreto legislativo 81/2008, che oggi esclude la responsabilità solidale del committente – cioè dell’impresa principale – per i danni subiti dai lavoratori dipendenti delle ditte appaltatrici o subappaltatrici, quando l’infortunio è causato da rischi specifici dell’attività di queste ultime.

In pratica, se un lavoratore impiegato in un appalto subisce un infortunio riconducibile a un rischio “tipico” dell’attività svolta dalla sua azienda, la responsabilità non ricade sul committente, ma solo sull’appaltatore diretto. Questo meccanismo, secondo i promotori del referendum, scarica il rischio sui livelli più deboli della catena produttiva e incoraggia l’affidamento a imprese meno strutturate, magari non in regola con le norme sulla sicurezza, pur di contenere i costi.

L’obiettivo del quesito è di rendere il committente corresponsabile, anche per i danni legati ai rischi propri delle imprese appaltatrici. Una modifica che, secondo i sostenitori, aumenterebbe il livello di tutela per i lavoratori, perché spingerebbe le aziende principali a scegliere partner affidabili e rispettosi delle norme. In un contesto in cui ogni anno si registrano centinaia di morti sul lavoro – quasi tre al giorno in media – il quesito punta a rafforzare il principio di responsabilità condivisa, anche nei casi in cui l’infortunio si verifica all’interno di un’attività appaltata.

  • Cosa succede se voti Sì: in caso di maggioranza del Sì e raggiungimento del quorum, sarà cancellata la parte della norma che esclude la responsabilità del committente per i rischi specifici delle ditte appaltatrici. Questo comporterà una maggiore estensione della responsabilità civile, con l’effetto di incentivare maggiore controllo e attenzione alla sicurezza lungo tutta la filiera produttiva.
  • Cosa succede se voti No: se vince il No, o se il quorum non viene raggiunto, resterà in vigore la norma attuale. Il committente non sarà responsabile per gli infortuni causati da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore, e la catena di responsabilità continuerà a escludere l’impresa principale in molti casi di incidente sul lavoro.

Quesito 5, più integrazione con la cittadinanza italiana: riduzione da 10 a 5 anni per la richiesta

Il quinto e ultimo quesito referendario si concentra sul tema della concessione della cittadinanza italiana agli stranieri extracomunitari maggiorenni, proponendo una modifica sostanziale alle regole attuali. Oggi, secondo quanto stabilito dall’articolo 9 della legge n. 91 del 1992, uno straniero extracomunitario può fare domanda di cittadinanza solo dopo dieci anni di residenza legale continuativa in Italia. Il referendum propone di abrogare questa soglia e ripristinare il limite precedente, fissato a cinque anni di residenza.

Si tratta di un cambiamento che punta a favorire l’integrazione sociale e giuridica di chi vive stabilmente in Italia, lavora, studia e contribuisce alla vita collettiva. La proposta referendaria non tocca gli altri requisiti previsti per ottenere la cittadinanza: restano invariati l’obbligo di conoscere la lingua italiana, la regolarità del reddito, l’assenza di condanne penali, la conformità agli obblighi fiscali e il rispetto della sicurezza dello Stato.

Secondo i promotori, l’attuale limite dei dieci anni rappresenta un ostacolo sproporzionato e anacronistico, che penalizza circa 2,5 milioni di persone di origine straniera, molte delle quali nate o cresciute in Italia, o qui residenti da tempo. La modifica avvicinerebbe l’Italia agli standard europei, dove la maggior parte dei Paesi richiede tempi inferiori di permanenza per la concessione della cittadinanza. Ridurre gli anni di attesa significherebbe, secondo chi sostiene il Sì, riconoscere in tempi più rapidi diritti civili e politici a chi è già parte integrante della società italiana.

  • Cosa succede se voti Sì: con la vittoria del Sì e il superamento del quorum, verrà abrogata la parte della legge che richiede dieci anni di residenza per presentare domanda di cittadinanza. Il nuovo termine sarà di cinque anni, rendendo più accessibile il percorso verso la cittadinanza per gli stranieri extracomunitari residenti in Italia.
  • Cosa succede se voti No: se prevale il No, o se l’affluenza non supera il 50% degli aventi diritto, la norma attuale non cambierà. La richiesta di cittadinanza da parte degli stranieri maggiorenni extracomunitari continuerà a richiedere almeno dieci anni di residenza legale e continuativa nel territorio italiano.

 

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