Perché Israele ha attaccato l’Iran

Perché Israele ha attaccato l’Iran? Dallo stallo nei negoziati sul nucleare al rapporto Aiea fino alla crisi interna di Netanyahu: tutte le ragioni dietro l’operazione “Rising Lion”.
Fonte immagine: Pixabay.com

Un attacco pianificato da tempo, scattato nel momento più opportuno per Israele. Con l’operazione “Rising Lion”, Tel Aviv ha colpito duramente obiettivi strategici su tutto il territorio iraniano, distruggendo impianti nucleari, basi aeree e postazioni militari. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato di una risposta necessaria per “colpire al cuore” il programma atomico della Repubblica islamica, dopo che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha certificato l’aumento delle scorte di uranio arricchito al 60%, in violazione degli accordi internazionali.

Ma le ragioni dell’attacco vanno ben oltre la questione nucleare. Lo stallo nei colloqui tra Teheran e Washington, la crescente pressione internazionale su Israele per la guerra a Gaza, la crisi interna al governo Netanyahu e le fratture all’interno del regime iraniano compongono un mosaico geopolitico complesso. Secondo alcuni analisti, l’azione militare potrebbe puntare anche a stimolare una rivolta interna in Iran, aprendo però il rischio di un’escalation su scala regionale.

Le motivazioni nucleari: colpire il cuore del programma atomico iraniano

A giustificare l’operazione “Rising Lion” è stato, nelle parole di Netanyahu, l’obiettivo di colpire “al cuore” il programma nucleare iraniano. Da anni lo Stato ebraico denuncia i rischi legati allo sviluppo dell’uranio da parte di Teheran, ritenuto finalizzato alla costruzione dell’arma atomica. Per lungo tempo tali allarmi erano stati considerati esagerati, persino da fonti interne all’intelligence occidentale. Ma a maggio 2025 è arrivata la svolta: un rapporto dell’Aiea, presentato dal direttore Rafael Grossi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha confermato che le scorte di uranio arricchito al 60% sono in costante aumento, in violazione degli accordi multilaterali.

È un passaggio cruciale: per Netanyahu si tratta della prima volta in cui un’autorità internazionale certifica quanto da lui denunciato per oltre un decennio davanti all’opinione pubblica mondiale. 

L’attacco israeliano ha colpito in modo diretto l’impianto di Natanz, dove si concentrano le attività di arricchimento. La struttura, situata in superficie, è stata distrutta, provocando anche una “contaminazione radiologica e chimica gestibile”, secondo quanto riferito dallo stesso Grossi. Altri due siti sensibili – Fordow e Isfahan – non sono stati colpiti, almeno fino ad ora.

Lo stallo dei negoziati e la sfida tra alleati: Israele anticipa gli Stati Uniti

L’attacco non nasce nel vuoto. 

Già da mesi Tel Aviv osservava con crescente nervosismo il riavvicinamento tra Washington e Teheran. L’amministrazione Trump aveva avviato colloqui segreti sul nucleare, mediati dall’Oman, tra il ministro iraniano Abbas Araqchi e l’inviato Usa Steve Witkoff. Lo scopo: limitare l’arricchimento dell’uranio iraniano in cambio di un alleggerimento graduale delle sanzioni economiche. Ma il negoziato si è arenato su due punti chiave: da un lato, la richiesta americana di uno stop totale all’arricchimento; dall’altro, la pretesa iraniana di una revoca immediata delle sanzioni. Teheran ha inoltre respinto la proposta di un consorzio nucleare regionale, definendola un “non starter”.

Per Netanyahu, quel negoziato rappresentava una minaccia politica e strategica. Sorpreso due mesi fa dall’annuncio pubblico di Trump alla Casa Bianca, il premier israeliano ha vissuto l’avvio dei colloqui come un’umiliazione. Il suo governo ha così deciso di “fare tabula rasa della via diplomatica”, ponendo un freno definitivo a ogni possibilità di riavvicinamento tra Usa e Iran.

Non è un caso che l’attacco sia arrivato a ridosso del secondo round dei colloqui tra Washington e Teheran. Secondo alcuni analisti, la scelta del timing è un chiaro messaggio: Israele non intende più aspettare la diplomazia altrui. La tensione tra Netanyahu e Trump, aggravata dall’“indifferenza” americana verso l’escalation a Gaza, si è tradotta in un’iniziativa unilaterale destinata a cambiare il corso della regione.

L’obiettivo interno: Gaza, la conferenza ONU e la sopravvivenza del governo Netanyahu

L’attacco contro l’Iran arriva anche in un momento di grave isolamento internazionale per Israele. La prosecuzione del conflitto a Gaza, con il suo pesante bilancio umanitario, sta erodendo il sostegno diplomatico di molti alleati storici. 

All’interno dell’Unione Europea si moltiplicano gli appelli per sospendere l’accordo di associazione con Israele, mentre Francia e Arabia Saudita stavano preparando una conferenza internazionale a New York per il riconoscimento dello Stato palestinese, non come esito di un negoziato, ma come suo prerequisito. Per Netanyahu, un evento del genere avrebbe rappresentato un colpo diretto alla sua visione geopolitica e alla legittimità della politica israeliana.

L’attacco all’Iran ha dunque anche una funzione dirompente sul piano diplomatico: oscurare Gaza, distogliere l’attenzione dalle pressioni internazionali e, se possibile, far slittare o ridimensionare iniziative multilaterali potenzialmente ostili. Ma ha anche un’utilità interna. La guerra può rafforzare la tenuta della coalizione di governo, in particolare contro le spinte disgregatrici dei partiti ultraortodossi. In queste settimane, infatti, alcuni di essi minacciavano di staccare la spina all’esecutivo per evitare l’estensione del servizio militare agli studenti delle scuole religiose, richiesta sostenuta da un’opinione pubblica sempre più polarizzata.

L’apertura di un fronte con l’Iran, proprio mentre Netanyahu è sotto assedio politico e giudiziario, appare quindi anche come una manovra per riprendere il controllo del dibattito interno, rafforzare l’unità nazionale e blindare un governo fragile, logorato dalla guerra e dalle divisioni.

 

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