L’8 e 9 giugno 2025, gli elettori italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari abrogativi, quattro dei quali promossi dalla Cgil e centrati su importanti tematiche legate al mondo del lavoro. Non si vota per le elezioni politiche o europee, ma per decidere se mantenere o cancellare alcune norme attualmente in vigore, attraverso il meccanismo del referendum abrogativo, previsto dall’articolo 75 della Costituzione.
I quesiti toccano punti chiave del diritto del lavoro, tra cui contratti a termine, licenziamenti, indennità e tutele occupazionali. Il primo quesito in particolare ha un forte impatto simbolico e sostanziale: mira a cancellare parte del Jobs Act, la riforma approvata nel 2015 dal governo Renzi che ha modificato profondamente le regole sul licenziamento dei lavoratori, specialmente per quelli assunti con il cosiddetto contratto a tutele crescenti.
In gioco c’è la possibilità di ripristinare una tutela più ampia per i lavoratori licenziati ingiustamente, tornando a una forma di protezione simile a quella prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che per decenni ha rappresentato un pilastro del diritto del lavoro italiano.
Cosa prevede oggi la legge
La disciplina attualmente in vigore in materia di licenziamenti è fortemente influenzata dalle modifiche introdotte con il Jobs Act nel 2015, che ha introdotto il cosiddetto contratto a tutele crescenti. Uno degli aspetti centrali di questa riforma è la netta distinzione tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti.
Per i lavoratori assunti dopo quella data, in caso di licenziamento illegittimo, non si applica più come regola generale il reintegro nel posto di lavoro. Al contrario, la legge prevede che il lavoratore riceva un’indennità economica prestabilita, il cui ammontare cresce in base all’anzianità di servizio: si va da un minimo di 6 mensilità a un massimo di 36, anche nei casi in cui un giudice accerti l’ingiustizia del licenziamento. Questo meccanismo è stato pensato per rendere più “prevedibili” le conseguenze economiche per le imprese e limitare i contenziosi giudiziari, ma ha suscitato critiche per la riduzione delle tutele sostanziali per i lavoratori.
Il reinserimento effettivo del lavoratore nel posto di lavoro – ossia il cosiddetto reintegro – rimane oggi una possibilità estremamente limitata, riconosciuta solo in casi eccezionali, ovvero:
- Licenziamenti discriminatori, come quelli basati su motivazioni politiche, religiose, etniche, di genere, legate alla maternità, all’orientamento sessuale o ad altre condizioni tutelate dalla Costituzione e dalle leggi antidiscriminatorie;
- Licenziamenti comunicati in modo illecito o formalmente invalido, ad esempio se avvengono solo verbalmente, senza un atto scritto come previsto dalla legge;
- Violazioni gravi dei diritti fondamentali, come nei casi in cui il licenziamento venga intimato per ritorsione nei confronti di un lavoratore che esercita un proprio diritto costituzionale (es. diritto di sciopero, libertà di espressione o di associazione).
Nei casi più frequenti – ad esempio licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (motivi economici od organizzativi), licenziamenti disciplinari non completamente infondati, o licenziamenti collettivi con irregolarità nelle procedure – il reintegro non è previsto. In questi scenari, la sola forma di tutela è l’indennizzo economico, la cui entità viene stabilita dal giudice sulla base di parametri oggettivi (anzianità, dimensioni dell’azienda, circostanze del caso).
Questa impostazione prende il nome di “sistema sanzionatorio a doppio binario”: da un lato si conserva il reintegro nei casi più gravi e tutelati dalla Costituzione, dall’altro si introduce un sistema più standardizzato e monetario per la gran parte delle altre situazioni. La Corte Costituzionale, con una sentenza del 2018, è intervenuta per chiarire che il giudice può modulare l’indennità anche in base alle circostanze concrete del licenziamento, ma non ha rimesso in discussione l’impianto generale del Jobs Act.
Il risultato, secondo i promotori del referendum, è un sistema in cui la possibilità di riottenere il proprio posto di lavoro è diventata l’eccezione, lasciando milioni di lavoratori – in particolare quelli assunti con i nuovi contratti – più esposti al rischio di licenziamenti arbitrari o strumentali, senza la garanzia di una reale reintegrazione anche in presenza di una decisione giudiziaria favorevole.
Cosa cambierebbe con il Sì
Se al primo quesito referendario dell’8 e 9 giugno prevalesse il Sì, verrebbe abrogata la norma del Jobs Act (decreto legislativo 23/2015) che ha introdotto il contratto a tutele crescenti e ha limitato il reintegro nel posto di lavoro per i lavoratori licenziati illegittimamente.
In termini pratici, questo significherebbe un ritorno alle regole precedenti, più vicine allo storico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, seppure già parzialmente modificato dalla legge Fornero del 2012. In sostanza:
- Il reintegro sul posto di lavoro tornerebbe a essere la misura principale in caso di licenziamento ingiusto, non solo in casi eccezionali;
- I lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, oggi esclusi dalle tutele piene, acquisirebbero gli stessi diritti di reintegro riconosciuti a quelli assunti prima di quella data;
- L’indennizzo economico non scomparirebbe del tutto, ma diventerebbe una possibilità alternativa, decisa in base al tipo di licenziamento e, in alcuni casi, alla volontà del lavoratore;
- Verrebbe superato il sistema sanzionatorio a doppio binario, ripristinando un impianto unitario che rafforza la posizione del lavoratore nei confronti del datore.
L’obiettivo dei promotori del referendum – in particolare la Cgil, ma anche numerosi giuslavoristi e organizzazioni a difesa dei diritti dei lavoratori – è quello di riequilibrare il rapporto di forza tra lavoratore e datore di lavoro, scoraggiando licenziamenti arbitrari o pretestuosi e restituendo effettività alla tutela reale, cioè quella che consente al lavoratore di tornare nel proprio posto di lavoro.
In questo senso, il Sì rappresenta una scelta di campo in favore di maggiori tutele occupazionali e di un modello giuridico che considera il posto di lavoro un diritto da difendere in sé, non semplicemente un rapporto da compensare economicamente in caso di interruzione illegittima.