Le conseguenze dell’attacco Usa in Iran

Dopo l’attacco Usa in Iran, cresce il rischio di escalation. Le possibili reazioni di Teheran, il ruolo dell’Italia e le intenzioni di Washington.
Fonte immagine: Pixabay.com

Nella notte tra sabato e domenica, gli Stati Uniti hanno colpito tre siti legati al programma nucleare iraniano, segnando un’escalation senza precedenti nella crisi che coinvolge da settimane Teheran, Israele e Washington. 

L’azione ordinata dal presidente Trump, celebrata come una dimostrazione di forza, arriva in un contesto già saturato di tensioni, tra bombardamenti israeliani, ritorsioni missilistiche iraniane e un equilibrio regionale sempre più fragile. 

Se questa operazione rappresenti l’inizio di una nuova fase di confronto o l’apice di una pressione militare destinata a raffreddarsi resta incerto: quel che è evidente, tuttavia, è il potenziale destabilizzante dell’attacco non solo per il Medio Oriente, ma anche per l’Europa e per l’Italia, che osservano da vicino gli sviluppi con crescente inquietudine, preoccupati dalle conseguenze dell’attacco.

Cosa farà adesso l’Iran?

All’indomani dell’attacco statunitense, le autorità iraniane hanno alzato i toni, ma non hanno ancora mosso una risposta militare diretta. La guida suprema Ali Khamenei ha promesso che l’America “pagherà un prezzo irreparabile”, ma a Teheran nessuno sembra avere fretta di compiere il primo passo verso una guerra totale. Il precedente dell’uccisione del generale Qassem Suleimani nel 2020 pesa ancora: allora l’Iran rispose con un attacco missilistico che non provocò vittime statunitensi, mantenendo un equilibrio sottile tra ritorsione e contenimento. Oggi, però, la situazione è diversa. I bombardamenti hanno colpito il cuore del programma nucleare e colto di sorpresa anche gli apparati militari, che potrebbero sentire il bisogno di reagire con più decisione per evitare di apparire indeboliti.

L’Iran ha diverse opzioni sul tavolo, ma nessuna priva di conseguenze. Potrebbe colpire basi statunitensi nella regione, in Iraq o nel Golfo, oppure utilizzare i propri alleati, come Hezbollah in Libano o gli Houthi in Yemen, per attacchi indiretti. Più difficile, ma non escluso, un’azione nello Stretto di Hormuz, dove il posizionamento di mine o il blocco del traffico navale rischierebbe di compromettere anche le esportazioni iraniane verso paesi come la Cina. L’arsenale missilistico a lungo raggio, già messo alla prova nei giorni scorsi, è limitato, mentre il ricorso ai droni o alla guerra informatica appare più sostenibile e meno rischioso.

In questo momento, la leadership iraniana è divisa tra l’esigenza di dimostrare forza e la consapevolezza di una crescente fragilità interna. Le sanzioni economiche, la perdita di alleati regionali e l’isolamento diplomatico rendono il margine di manovra più stretto che in passato. Ogni scelta dovrà tenere conto non solo della necessità di salvare la faccia, ma anche di evitare un’escalation che il regime, oggi più che mai, rischia di non poter reggere.

Cosa faranno gli Stati Uniti?

Dalle parole di Donald Trump traspare l’intento di mostrare determinazione e superiorità militare, ma resta poco chiaro fino a che punto l’amministrazione statunitense sia disposta a spingersi. Il presidente ha definito l’attacco ai siti nucleari iraniani un’azione “necessaria e risolutiva”, rivendicandone il successo con toni trionfalistici. Tuttavia, lo stesso Trump ha riconosciuto che una reazione dell’Iran potrebbe aprire la strada a un’escalation, evocando la possibilità di ulteriori operazioni se “provocati”. Questo doppio registro, tra l’annuncio di un’azione conclusa e la minaccia di nuove risposte, riflette una strategia ambigua, che lascia spazio tanto a un’escalation controllata quanto a una temporanea sospensione del confronto.

Il vero obiettivo resta avvolto da incertezze. Alcuni analisti vedono nella scelta americana il tentativo di colpire preventivamente per interrompere lo sviluppo nucleare iraniano, scoraggiare altri attori regionali e rafforzare il deterrente statunitense dopo mesi di tensioni in cui Teheran ha agito con crescente audacia. Altri, invece, leggono l’operazione come una mossa politica in vista delle elezioni americane, destinata più a consolidare l’immagine interna del presidente che a ridefinire gli equilibri strategici nel Golfo.

Non è nemmeno chiaro se l’attacco sia destinato a rimanere un atto isolato o il preludio a una campagna più ampia. Il Pentagono, nel frattempo, ha rafforzato la postura difensiva in tutta la regione, anticipando possibili colpi di ritorsione. È stato segnalato anche lo spostamento di navi e sistemi antimissile, mentre si ipotizza che alcune basi statunitensi siano già state evacuate in via precauzionale. La presenza di decine di migliaia di soldati americani tra Iraq, Qatar, Bahrein, Emirati Arabi e Siria rende la rete militare statunitense vulnerabile a risposte asimmetriche, specialmente attraverso droni e milizie alleate dell’Iran.

Se l’Iran dovesse colpire duramente, soprattutto con vittime americane, il rischio è che Trump si senta politicamente obbligato a rilanciare l’offensiva, entrando in una spirale difficile da controllare. Per ora, la Casa Bianca mantiene una linea di comunicazione pubblica imperniata su forza e controllo, ma gli sviluppi sul terreno potrebbero rapidamente cambiare tono e direzione.

Le conseguenze per l’Italia

L’Italia ha preso le distanze dal coinvolgimento militare diretto nella crisi, ribadendo una linea di neutralità operativa e sostegno alla de-escalation. Il ministro della Difesa Guido Crosetto è stato netto: nessun soldato italiano parteciperà ad attacchi contro l’Iran, né sarà concesso l’uso di assetti militari italiani per operazioni belliche. Una posizione che riflette tanto vincoli costituzionali quanto la volontà politica di tenersi fuori da un conflitto che rischia di espandersi ben oltre i suoi protagonisti iniziali. Eppure, l’Italia non è un osservatore distante: la sua esposizione la rende vulnerabile a effetti indiretti ma significativi.

Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annunciato il rientro di alcuni militari da Baghdad, a causa dell’elevato rischio di ritorsioni contro la base che condividevano con personale statunitense. Il contingente italiano in Medio Oriente conta circa 1.100 uomini tra Iraq e Kuwait, impegnati in missioni di addestramento e stabilizzazione. Altri mille si trovano in Libano, sotto egida Onu, nella fragile area di confine con Israele. Se la crisi dovesse allargarsi, anche queste missioni, finora improntate alla cooperazione internazionale, potrebbero trovarsi esposte a minacce dirette.

Ma è il territorio nazionale a suscitare le maggiori preoccupazioni sotto il profilo della sicurezza. In Italia sono presenti oltre 12.000 militari statunitensi, distribuiti tra le basi di Aviano, Sigonella, Camp Darby, Vicenza e Napoli. Alcune di queste installazioni, in particolare Aviano e Sigonella, sono in grado di supportare operazioni aeree di grande portata, come quelle appena compiute dagli Stati Uniti. Anche se soggette a regole Nato, la loro potenziale utilizzazione in scenari bellici potrebbe renderle bersagli simbolici di ritorsioni. Non a caso, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo (CASA) e il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica sono già stati convocati per valutare l’innalzamento dei livelli di allerta, mentre i servizi segreti monitorano possibili minacce a infrastrutture sensibili.

L’Italia, pur senza entrare nel conflitto, si trova dunque a dover affrontare un delicato equilibrio tra alleanza atlantica, autonomia strategica e tutela del proprio territorio. Una posizione di confine che la costringe, ancora una volta, a navigare con cautela nelle acque agitate della geopolitica mediorientale.

 

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